Le Sezioni Unite sul Danno risarcibile in caso di responsabilità contrattuale degli amministratori di società fallita
Con l’ordinanza del 3 giugno 2014 n. 12366 Rel. Scaldaferri, la I Sezione della Corte di Cassazione aveva trasmesso gli atti al Primo Presidente affinché questo valutasse l’opportunità di sollecitare una pronuncia delle Sezioni Unite in materia di responsabilità degli amministratori di società, fallimento e onere probatorio. Il Collegio rimettente sollevava una questione essenziale circa l’utilizzabilità, ai fini dell’accertamento e liquidazione del danno nel caso di responsabilità degli amministratori di una società, del dato rappresentato dalla differenza tra attivo e passivo fallimentare: “in particolare” – proseguiva la Corte – “ove si dia risposta positiva, occorre stabilire quali siano le condizioni e i limiti entro i quali tale dato sia utilizzabile, in connessione con le ragioni che lo giustificano”.
Nella vicenda sottesa, il curatore fallimentare di una società conveniva in giudizio l’amministratore unico della stessa al fine di sentirne accertare la responsabilità per violazione degli obblighi inerenti la sua funzione, con conseguente condanna al risarcimento del danno in misura pari alla “differenza tra attivo e passivo fallimentare”; il convenuto, invece, costituitosi in giudizio, chiedeva il rigetto della domanda attorea o, comunque, la riduzione della condanna entro i limiti dell’aggravamento del passivo in conseguenza dei fatti a lui contestati.
Con sentenza 6 maggio 2015 n. 9100, le Sezioni Unite si pronunciano sulla questione e statuiscono che: “nell’azione di responsabilità promossa dal curatore a norma dell’art. 146, co. II, l.f.., la mancata (o irregolare) tenuta delle scritture contabili, pur se addebitabile all’amministratore convenuto, non giustifica che il danno risarcibile sia determinato e liquidato nella misura corrispondente alla differenza tra il passivo accertato e l’attivo liquidato in sede fallimentare, che integra solo un parametro per una liquidazione equitativa, ove ne sussistano le condizioni, sempreché il ricorso a tale criterio sia, in ragione delle circostanze del caso concreto, logicamente plausibile e, comunque, che l’attore abbia indicato le ragioni che gli hanno impedito l’accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell’amministratore”.
In primo grado, il Tribunale aveva ritenuto di poter addossare interamente all’amministratore l’ammontare del disavanzo fallimentare, in virtù “della non vinta presunzione ex art. 2729 c.c. della sussistenza di nesso di causalità tra il disavanzo stesso e la violazione degli obblighi di tenuta delle scritture contabili che non consenta la ricostruzione dei fatti” e, per questo, lo condannava al pagamento del risarcimento nella misura indicata nell’atto di citazione.
La Corte d’Appello rigettava il gravame proposto dall’amministratore, ritenendo infondate le doglianze sollevate da quest’ultimo e chiarendo altresì alcuni punti fondamentali: in primo luogo, la Corte territoriale afferma che, in tema di responsabilità “contrattuale” nei confronti della società colui che propone l’azione deve dimostrare la sussistenza della violazione degli obblighi inerenti le funzioni gestorie e il nesso causale fra queste e il danno, mentre il convenuto (amministratore) deve provare che i fatti dannosi non sono a sé imputabili; inoltre, la misura del risarcimento deve essere pari al “differenziale tra attivo e passivo fallimentare” soprattutto qualora, come nel caso di specie, il curatore si trovi nell’impossibilità di procedere alla ricostruzione del patrimonio sociale per assoluta mancanza delle scritture contabili.
Con l’unico motivo di ricorso, l’appellante deduceva violazione e falsa applicazione delle norme regolanti la responsabilità degli amministratori, l’onere probatorio e la prova per presunzioni ex art. 2927 c.c.
La Sezione rimettente osservava che i principi generali in tema di riparto dell’onere probatorio richiamati dal giudice di seconde cure, in effetti, sono compatibili con l’interpretazione degli artt. 2392, 1223 e 2697 c.c., espressa dalla giurisprudenza di legittimità (cfr. Cassazione 22911/2010 e 25977/2008); proseguiva affermando che la sentenza impugnata, fermi questi principi generali, valuta che correttamente il Tribunale ha giudicato compatibili con tali principi “porre a carico dell’amministratore l’intero dissesto patrimoniale ove la violazione dei suoi obblighi di regolare tenuta della contabilità sociale precluda la ricostruzione delle vicende della gestione della società”.
Ad avviso della Suprema Corte, per un verso, il giudice territoriale “di tale compatibilità con i principi generali … non pare dar conto in modo specifico”, e per altro verso c’è da dire che, anzi, la giurisprudenza della Cassazione non sembra pacifica sul punto, in particolare riguardo alle condizioni e ai limiti di utilizzabilità del criterio sopra richiamato ai fini dell’accertamento e della liquidazione del danno risarcibile.
Si registrano, infatti, due diversi orientamenti: uno, più risalente (cfr. Cassazione 6493/1985 e 3925/1979) ma di recente riaffermato (cfr. Cassazione 5876/2011 e 7606/2011), secondo il quale la totale mancanza di scritture contabili – come il caso di contabilità tenuta in modo sommario o non intellegibile – di per sé giustifica la condanna dell’amministratore, poiché la violazione di tale obbligo non consente, di fatto, all’attore di provare il nesso eziologico e, quindi, giustifica l’inversione dell’onere della prova a carico dell’amministratore, il quale dovrà dimostrare la non riconducibilità del dissesto alla sua condotta; in altre decisioni (cfr. Cassazione 1281/1977, 9252/1997 e 1375/2000), l’utilizzo di tale criterio è stato ritenuto giustificato qualora, in base ad un giudizio presuntivo, il giudice di merito giunga a ritenere che lo sbilancio tra attivo e passivo sia addebitabile a comportamenti illegittimi posti in essere dagli organi sociali, quindi come osserva la I Sezione, “non sembra che in tali decisioni trovi conferma il principio della automatica identificazione del danno nello sbilancio fallimentare, bensì piuttosto quello del nesso di causalità materiale”.
In quest’ultimo filone s’inserisce anche un’altra decisione (Cassazione 10488/1998) che reputa addirittura ingiustificata la limitazione del risarcimento “alla differenza tra attivo e passivo fallimentare dovendosi invece accollare agli amministratori il danno che risulti conseguenza immediata e diretta delle commesse violazioni” o altre più recenti (Cassazione 2538/2005, 11155/2012 e 17198/2013) che escludono senz’altro l’automatica applicazione di tale criterio e lo ritengono applicabile nei soli limiti di cui all’art. 1226 c.c., quindi “solo ove il giudice di merito, accertate le violazioni compiute dall’amministratore, indichi le ragioni che non hanno permesso l’accertamento degli specifici effetti pregiudizievoli riconducibili a tali violazioni, motivando inoltre la plausibilità logica del ricorso a suddetto criterio di liquidazione”.
Fatta questa breve panoramica giurisprudenziale, risultano forse ancora più chiare le ragioni che hanno portato la I Sezione della Corte di Cassazione a sollecitare un intervento delle Sezioni Unite, stante l’importanza della questione per la sua “incidenza sulla definizione di numerosi e rilevanti giudizi di responsabilità”.
Oltre che sul fronte giurisprudenziale di legittimità, anche nella giurisprudenza di merito e, soprattutto, tra gli studiosi è accolto il principio per cui non tutti i comportamenti illeciti degli amministratori possono dar luogo a responsabilità risarcitoria, ma solo quelli che abbiano causato il danno sofferto dal patrimonio sociale, danno che deve essere legato da un nesso eziologico a suddetti illeciti (cfr. Tribunale Milano 19 dicembre 2006 in Soc., 2008, 337; contra Trib. Milano 10 giugno 2004 in Dir. prat. soc. 2005, 6, 80 con nota di Balsamo e Maltese Responsabilità degli amministratori: parametri del controllo giudiziale; Tribunale Milano 26 maggio 2004, ivi, 2005, 4, 79 con nota di Cardamellis Responsabilità del collegio sindacale: presupposti, condizioni e limiti; Cassazione 10488/1998 in Giust. civ., 1999, I, 75 con nota di Salafia Considerazioni in tema di responsabilità degli amministratori verso la società e verso i creditori sociali).
Come osservato in dottrina, “il problema è come provare la sussistenza di un siffatto nesso di causalità e, poi, come determinare in concreto il quantum del danno risarcibile” (Redeghieri Baroni nota a Tribunale Milano 2007, in Soc., 2008, 1528): a riguardo, la giurisprudenza ha elaborato diversi criteri, tutti sufficientemente condivisibili, tra i quali il più applicato è quello che quantifica il danno in misura pari all’evoluzione negativa del patrimonio netto della società, dopo il verificarsi della causa di scioglimento (v. Tribunale Milano 28 novembre 2005, in Soc., 2007, 67; Tribunale Milano 7 febbraio 2003, ivi, 2003, 1385 con nota di Redeghieri Baroni Questioni in tema di responsabilità degli organi sociali: quantificazione dei danni, omessa vigilanza dei sindaci e copertura assicurativa).
Nel caso, come quello oggetto della pronuncia in esame, di totale mancanza di contabilità sociale, l’uso del parametro rappresentato dalla differenza tra attivo e passivo fallimentare nella determinazione del risarcimento dovuto dagli amministratori, di fatto svolge anche una funzione sanzionatoria volta di evitare che quest’ultimi possano sottrarsi ad ogni responsabilità semplicemente giovandosi di un proprio grave inadempimento (v. Marescotti, Scioglimento della società e responsabilità per nuove operazioni, in Soc., 1986, 1072; De Crescienzo, in Il fallimento e le altre procedure concorsuali, Torino, 1999, IV, 400; contra, non a caso, proprio Rordorf, Il risarcimento del danno nell’azione di responsabilità contro gli amministratori, in Soc., 1993, 620).
Ebbene, le Sezioni Unite, con sentenza 6 maggio 2015 n. 9100, Rel. Rodorf, intanto premettono che “i doveri imposti dalla legge, dall’atto costitutivo e dallo statuto agli amministratori sono assai variegati” e che il loro inadempimento, a differenza del nesso di causalità e del danno, se non deve essere provato dal creditore, deve essere comunque allegato, e l’allegazione deve riguardare non un qualsiasi inadempimento, ma un inadempimento “astrattamente efficiente alla produzione del danno” ed in questo senso “qualificato”.
E così, soltanto alcuni comportamenti sono astrattamente efficienti a produrre un danno corrispondente all’intero deficit patrimoniale accumulato dalla società fallita e accertato nell’ambito della procedura concorsuale: ad esempio, la distrazione di alcuni beni mobili o la mancata redazione di due bilanci di esercizio – unici inadempimenti allegati nel caso di specie – non possono mai far pensare a una perdita che si identifichi con la differenza tra il passivo e l’attivo accertata in sede fallimentare.
Stesso discorso deve ribadirsi per altro dovere di comportamento potenzialmente produttivo di danno e cioé per la mancata o irregolare tenuta delle scritture contabili. L’allegazione di tale qualificato inadempimento vale esclusivamente in relazione al danno che da esso possa derivare, mentre non giustifica in alcun modo che venga posto a carico dell’amministratore la prova della non dipendenza del deficit patrimoniale dall’inadempimento di ulteriori ma non meglio specificati (nè allegati) obblighi. Anche se la violazione dell’obbligo relativo alla diligente conservazione delle scritture contabili può concretamente occultare la violazione di altri doveri gravanti sull’amministratore, non può farsi discendere dalla violazione stessa un obbligo risarcitorio di un danno che, neppure in astratto, può collegarsi alla negligente tenuta delle scritture: diversamente opinando, si ammetterebbe un risarcimento sanzionatorio che il nostro ordinamento può tollerare nei soli casi previsti dalla legge.
(Diritto Civile Contemporaneo, 8 maggio 2015)